Di tutte le varie filiazioni stilistiche generate(si) in ambito metal, quella che ha senza dubbio trasceso maggiormente i limiti del discorso musicale, tracimando verso altri ambiti disciplinari, è il cosiddetto black metal della seconda ondata (quello norvegese, per intendersi). Fin dai suoi primordi gli aspetti sociologici e ideologici – se si vuole filosofici, anche applicando un sano principio di carità – sono stati determinanti nella sua definizione. I primi soprattutto grazie alle ben note vicende giudiziarie che hanno avuto come protagonisti alcuni tra i prime movers della scena, e che hanno presentato al mondo la complessità e le tensioni di una società come quella scandinava; i secondi più direttamente connessi con la componente testuale e iconografica. Senza considerare il trait d’union costituito dalla questione politica, che date le dimensioni e l’insidiosità preferirei bellamente ignorare. In generale, è interessante notare come il tempo abbia portato giovamento a tutta la questione, arricchendola profondamente e – mi sia consentito dire – rompendo il monopolio delle cazzate di Vikernes e seguaci, compresi Moynihan e Søderlind, checché se ne dica: per quanto mi riguarda Lords of Chaos riesce nel geniale tentativo di essere un libro uno dei cui autori è un fascista impenitente e contemporaneamente di far incazzare Vikernes stesso. La messe di titoli è molto ampia, tanto che si è arrivati a imprese comuni con il pensiero ecologista nonché a un Black Metal Theory Symposium (roba di matrice accademica nel senso positivo del termine).[1] D’altronde il potenziale speculativo non manca: come dice il celeberrimo recensore del simposio, «Black Metal as a genre is saturated in metaphysics».[2] Questi aspetti teoreticamente più ricchi sono stati approfonditi molto accuratamente da Claudio Kulesko: personalmente mi limito a segnalare I Am the Black Wizards di Benjamin Hedge Olson (che è una tesi di laurea!!!).[3]
Quello che in realtà qui mi interessa sottolineare è che, nonostante questa ricchezza concettuale, quando si parla di un disco black metal e se ne vogliono tessere le lodi, il lessico sembra ridursi all’osso. Nella maggior parte dei casi a me noti appare molto difficile sfuggire alla coppia terminologica – alla diade, per coloro che hanno di queste tendenze – composta da «gelido» e «marcio». Al di là del paradosso (se qualcosa è gelido tendenzialmente è difficile che marcisca, o così mi dice il congelatore), mi rendo conto che se si prende uno dei dischi archetipici del genere come A Blaze in the Northern Sky dei Darkthrone, è veramente difficile definirlo altrimenti che appunto gelido e marcio. Però è pur vero che oltre le gambe della freddezza e del marciume c’è senz’altro di più.
È questo il caso, fra i tantissimi, di Kerker, Todt und Teyfl degli austriaci Varulv. Prima di entrare nel merito, una piccola precisazione: non è atmospheric, né symphonic, né depressive, né melodic, né altre di queste determinazioni (non mi si fraintenda: i sottogeneri metal sono una delle mie parafilie). È un disco di black metal, pubblicato nel 2020. Per certi versi è un disco canonico: si apre con un intro (“Kerker”) tratta dal doppiaggio tedesco de Il settimo sigillo di Bergman; i testi sono scritti in tedesco utilizzando grafie obsolete (Teyfl invece di Teufel) e raccontano di tradizioni popolari della Stiria, land di origine della band. Eppure questo non è in alcun modo il «classico album black metal». O forse sì.
“Der Rattenpakt”, la prima traccia dopo l’intro, parte a cannone con blast beat e tremolo picking: tutto l’armamentario classico, niente di più né di meno. Eppure l’equilibrio complessivo è perfetto: le chitarre creano ondate di suono definite ma mai veramente “pulite”, mentre i colpi di batteria sono chiari e distinti, senza perdere un’oncia di furia. Vi è anche spazio per il fraseggio chitarristico tipico del black metal, in cui una melodia riconoscibile armonizza con il muro della ritmica. Il tutto in maniera quasi dialettica, con ciascuna parte che beneficia della presenza delle altre.
La successiva “Erwachen” mostra come i Varulv padroneggino altrettanto bene anche il mid-tempo (con o senza tappeto di cassa), sapendone sfruttare le possibilità espressive. La rinnovata furia di “Des Scharfrichters Pflicht” segue l’intermezzo atmosferico dalle tinte folk “Todt”: l’assalto strumentale è reso ancora più dinamico dai cambi di dinamica e di tempo, in cui i nostri costruiscono sapientemente il crescendo. Ed è questo un aspetto significativo di Kerker, Todt und Teyfl: il tasso tecnico del disco è alto, cosa sempre più frequente ma mai scontata, soprattutto in questo contesto, e si esprime soprattutto nell’arrangiamento e nella dinamica, una delle componenti al tempo stesso più determinanti e meno considerate del genere. Il black metal è infatti, in quasi tutte le sue determinazioni, musica immersiva che tende ad avvolgere l’ascoltatore e ad assorbire l’esecutore. Datosi il range dinamico molto limitato – non è contesto per i pianissimo, e il ritmo complessivo tende a essere sempre sostenuto, tanto per dire – evitare l’effetto ottundente è al tempo stesso necessario e molto difficile. I Varulv dimostrano di saperlo fare molto bene.
Un altro bell’esempio è in “Am Totentisch”: la traccia apre con un riff che non sfigurerebbe in un disco gothic, ma grazie a due semplici accordi si trasforma in un minaccioso attacco. A metà del brano avviene un’interruzione piuttosto brusca, alla quale fa seguito una ripresa progressiva, quasi come se la canzone si richiudesse su se stessa, per poi esplodere nuovamente.
Quello che colpisce di “Alter Pfad” è invece, soprendentemente, l’andamento ritmico. La batteria conduce il riff attorno al quale si sviluppa la canzone attraverso vari cambi di groove, che orientano la melodia anche grazie ad accenti spostati sapientemente. Per poi chiudere col botto.
“Teyfl” è l’ultimo intermezzo, stilisticamente contiguo a “Todt”, prima del trittico finale. “Der Leichenfresser” è un brano ricco dal punto di vista armonico: tra quinte diminuite e power chord invertiti è quasi una sintesi dell’arsenale compositivo del black metal. “Münzen aus Gold” parte invece con un riff malvagio (vicino ai primi Bathory, per capirsi) sul quale la voce, di per sé piuttosto canonica, mostra tutta la sua cattiveria, spesso sdoppiandosi. Con i suoi stacchi marziali è forse il brano più veemente di tutto il disco. La chiusura è affidata a “In Schwarz gehüllt”, che riprende lì dove la traccia precedente aveva lasciato. La batteria fa sfoggio di tutta la sua abilità, tra fill avvelenati, blast-beat e cambi di tempo, ma tutto il brano è estremamente coeso e tirato fino all’inverosimile, salvo poi chiudere quasi improvvisamente riprendendo l’intro quasi circolarmente (d’altronde i tre intermezzi corrispondono al titolo dell’album).
In conclusione, Kerker, Todt und Teyfl è un bel disco di black metal, che riesce a sintetizzare piuttosto bene tutti gli elementi caratteristici del genere senza mai suonare come una parodia/tributo/cliché (e soprattutto quest’ultimo è un problema fin troppo diffuso).
Ma come la mettiamo con il gelo e il marciume? Per come la vedo io, questa famigerata diade fonda una questione importante, che è alla base di molti degli sviluppi teorici contemporanei del black metal, ossia il complesso e spesso controverso rapporto con l’umanità e l’esistenza (da Per Yngve Ohlin aka Dead a Eugene Thacker,[4] direi).
Ora, i paesaggi sonori dei Varulv non sono certo tropicali, ma al tempo stesso voler imporre qualsivoglia descrittore polare sembrerebbe veramente una forzatura. Anche perché non ci sono lande innevate ma segrete, la morte e il diavolo – cose che, per quanto oscure, portano impresso l’indelebile marchio dell’umanità. Musicalmente parlando, e mi perdonino certi puristi dell’impurità, la produzione è inoltre piuttosto curata, e si avvale addirittura delle tecniche di registrazione attualmente a disposizione (quindi non un tostapane).
Insomma, Kerker, Todt und Teyfl è, ripeto, un bel disco di black metal. Però non è né gelido né marcio: che fare?
[1] Scott Wilson, Melancology: Black Metal Theory and Ecology (Winchester: Zero Books, 2014); Nicola Masciandaro (ed.), Hideous Gnosis: Black Metal Theory Symposium 1 (London: Glossator, 2010), http://www.radicalmatters.com/metasound/pdf/Hideous.Gnosis.Black.Metal.Theory.Symposium.I.pdf.
[2] Mark Fisher, review of Hideous Gnosis: Black Metal Symposium 1, by Nicola Masciandaro, The Wire, 2010, 68, http://blackmetaltheory.blogspot.com/2010/05/hideous-gnosis-reviewed-in-wire.html.
[3] Benjamin Hedge Olson, I Am the Black Wizards: Multiplicity, Mysticism and Identity in Black Metal Music and Culture (MA Thesis, Bowling Green, OH, Bowling Green State University, 2008), http://rave.ohiolink.edu/etdc/view?acc_num=bgsu1206132032.
[4] Eugene Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta, trad. di Claudio Kulesko (Roma: Not, 2019).

- Kerker
- Der Rattenpakt
- Erwachen
- Todt
- Des Scharfrichters Pflicht
- Am Totentisch
- Alter Pfad
- Teyfl
- Der Leichenfresser
- Münzen aus Gold
- In Schwarz gehüllt