Nel giugno del 1996, all’uscita del loro secondo album, il gruppo belga dei dEUS era tutt’altro che sconosciuto, il loro esordio “Worst Case Scenario” con un sound alternative e sperimentale, in bilico tra Pixies e Pavement, aveva raccolto consensi unanimi, un percorso originale e imprevedibile quello dell’ ensemble di Anversa che pubblicò l’anno successivo l’EP “My Sister=My Clock”, surreale e schizofrenico, al limite dell’avanguardia. Con fondamenta così solide i dEUS approdarono al secondo album con una sicurezza e una disinvoltura tali da permettersi una trasposizione ancor più esasperata e personale del loro suono.
La copertina di “In a bar, Under the sea”, dipinto originale di Rudy Trouvé, chitarrista e vocalist del gruppo, è un’immagine dadaista di una realtà colorata, distorta e deformata, specchio di un’evoluzione non lineare, di obiettivi non precisati, di un salto nel buio, azzardato, dolce e ovattato: “I don’t mind whatever happens, I don’t mind whatever goes around… Whatever happens” intonano le voci blues a 78 giri nei pochi secondi dell’introduzione. Segue un breve dialogo filosofico nonsense di come “essere il proprio cane sia una roba alla James Brown” che avvia la ritmica funky-grunge di “Fell Off The Floor, Man”: l’influenza di Captain Beefheart è già presente in questa prima traccia e sarà una costante per tutto il disco.
Alla classica formazione basso, batteria e chitarre si aggiungono spesso archi e tastiere, che integrano senza snaturare l’attitudine musicale del gruppo che risulta comunque diretta e aggressiva. La contaminazione di altri stili e i riferimenti jazz, evidenzia l’eclettismo del gruppo e porta il suono del disco verso un art-rock a volte progressivo, spesso sperimentale e in diversi episodi anche raffinato e melodico. Ne è un esempio la breve “Opening night”, pezzo eccentrico e accattivante messo come un estraniante intermezzo pop prima dell’inquieta “Theme from Turnpike” che, strutturata su un campione di basso di Charlie Mingus, ossessiva e visionaria sfuma in un apocalittico free jazz troncato di netto.
“Little Arithmetics” è una delle canzoni più belle del disco, la dimostrazione magistrale della capacità dei dEUS di lavorare di fino con la melodia e di saperla plasmare a loro piacimento, facendo crescere la dolce tensione di una ballata folk, destrutturandola e infine smembrandola in un fragoroso fade noise.
“Gimme The Heat” rispecchia ancora meglio lo stile del gruppo, una progressione di atmosfere diverse interpretate da più strumenti, dove ogni traccia è un articolato ed intenso discorso spalmato in infinite sfumature. Il disco è a tutti gli effetti un concept atipico e gioca continuamente con i contrasti tra le varie tracce, montando atmosfere o spiazzando l’ascoltatore. Gli affascinanti 8 minuti del pezzo risultano essere i più imprevedibili, epici e visionari dell’intero album e la successiva “Serpentine” una melodia minimale appena sussurrata “I’m caught in the flow of sound, And you’re just some melody”.
“A Shocking Lack Thereof” è un blues malato, ipnotico, cantato a due voci, disturbato da venature rumoriste, l’eredità di Captain Beefheart è qui ancor più evidente che altrove; i dEUS sembrano davvero non volersi prendere mai troppo sul serio e la raffinata atmosfera arty appena creata viene subito rimescolata nello strambo vortice pop di “Supermarketsongs”, in “Memory Of A Festival”, un tiratissimo frastornato garage punk, e nella psichedelia californiana di “Guilty Pleasures”. Il jazz lounge di “Nine Threads” con groovy soft e parole sfuocate dai vapori alcolici ci trasporta in atmosfera da piano bar. “Disappointed In The Sun” è una lunga ballata in cui il vocalist, Tom Barman riprende nel testo il titolo dell’album, la successiva “Roses” con il suo crescendo serrato e coinvolgente, crea un climax avvolgente e ipnotico tipico del post-rock della prima metà dei ’90.
Il disco si chiude con la splendida melodia rarefatta di “Wake me up Before I Sleep”, una chitarra slide alla Gilmur accompagna le lievi parole del testo: “There’s nothing I can do, that isn’t gonna be a mistake” e in fondo sono proprio questi “errori”, le svolte casuali, le caratteristiche essenziali di questo disco; In a Bar, Under the Sea non accompagna mai nell’ascolto, non suggerisce percorsi, è bensì selvaggio, avventuroso, ostinato e ruvido, ma allo stesso tempo affascinante e divertente. Ed è probabilmente in questo libero arbitrio, nelle infinite sfumature, negli intrecci più reconditi la bellezza di questo lavoro, che a distanza di anni riporta ancora oggi intatto il suo valore.

- I Don’t Mind What Ever Happens
- Fell Off the Floor, Man
- Opening Night
- Gimme from Turnpike
- Little Arithmetics
- Gimme the Heat
- Serpentine
- A Shocking Lack Thereof
- Supermarketsong
- Memory of a Festival
- Guilty Pleasures
- Nine Threads
- Disappointed in the Sun
- For the Roses
- Wake Me Up Before I Sleep