“Rapa Nui”_SILENT ISLAND

by Manlio Perugini

Nonostante la mia inesauribile ansia catalografica, testimoniata spesso anche su queste pagine, vi sono alcune categorie che mi hanno sempre messo in difficoltà, sia perché non riesco a trovarne la ratio sottostante, o perché la trovo e non mi piace, o ancora perché non mi sembrano contenere o riassumere abbastanza. Un esempio, a tal proposito, è il termine post-rock. Ora, non sono del tutto sicuro di poter razionalizzare questo mio disagio, quantomeno in termini genetici, ma molto probabilmente è connesso ai miei problemi con il prefisso post- (ciò che detto in questo modo fa anche ridere).

Quando sento parlare di post-qualcosa mi suona sempre come una dichiarazione di irresolutezza nei confronti del qualcosa di turno, irresolutezza che si è deciso di lasciare lì, senza possibilità di discussione, al massimo con qualche annuncio. Ora, questo può non essere necessariamente un problema, ma senza dubbio mi causa una certa circospezione. D’altronde, se qualcosa è (tra)passato veramente, perché affannarsi a dichiararne ossessivamente il decesso? Chi si sta cercando di convincere?

Per quanto riguarda la musica, chiaramente valeva lo stesso, per cui ho lasciato per anni che le suddette concezioni, unite ai miei pregiudizi, indirizzassero i miei ascolti. Non amavo il punk (ebbene sì, anche se poi si guarisce), per cui il post-punk andava più che bene; au contraire, amavo il rock (e qui invece credo che sia cronica), per cui il post-rock stava bene dove stava. D’altronde, avevo letto da più parti che si trattava di un utilizzo della classica strumentazione rock in una direzione più orientata verso la costruzione di trame sonore, più attenta alle timbriche e al suono che agli aspetti armonici e melodici. Ciò che voleva dire niente riff o powerchord: orrore!

Chiaramente, avendo letto tutto ciò, non avevo certo bisogno di disturbarmi ad ascoltare. A nulla sono valsi i tentativi (esterni) di convincermi che vi fosse qualcosa in più da capire da parte mia, e in quelle rare occasioni in cui mi sono spinto fino all’ascolto, l’ho fatto comunque in maniera distratta e pregiudiziale. Tra l’altro, se avessi dovuto ascoltare qualcosa che non era rock (o affini) c’era tanta di quella roba che non avrei dovuto di certo costringermi ad ascoltare qualcuno che con chitarra/basso/batterie ci faceva cose a me incomprensibili.

Per cui, quando su queste stesse pagine è apparsa una recensione di un disco dei Mogwai, l’ho letta con profondo distacco, quasi asetticamente. Tipo “so di che cosa si tratta e so che non mi interessa, per cui posso leggerlo senza problemi”. Galeotta fu la recensione: a distanza di secoli mi sono incuriosito, sono andato ad ascoltare i Mogwai e mi sono anche piaciuti. Non è questa però la storia di un amore a lungo procrastinato: non ci sono impazzito dietro né ho scoperto una nuova vocazione musicale. Molto più banalmente, ho rimosso uno dei tanti strati paraorecchie con i quali mi rapporto al mondo, per cui se adesso mi si propone del post-rock, non dico di no a priori.

Può anzi capitare che qualcosa mi piaccia particolarmente: è il caso dei Silent Island, band ungherese capitanata dal chitarrista István Csarnogurszky. Attivi dal 2016, i Silent Island sono una sorta di supergruppo: sommando le uscite discografiche dei componenti si ottiene una lista sufficiente a tappezzare una parete.

Orientarsi in una tale messe di release è tutt’altro che semplice, eppure – per quanto possa suonare retorico – è altrettanto difficile “cascare male”, come usa dirsi a Roma. Ritengo che un buon punto d’accesso sia l’EP Rapa Nui (2019). I quattro brani (per un totale di circa 12’) che lo compongono rendono molto bene l’idea della proposta dei Silent Island. La musica è interamente strumentale, e le tracce sono costruite intorno alle trame della chitarra di Csarnogurszky, cui il basso di Gábor Károlyi fà da contrappunto, raramente doppiandole. L’andamento ritmico è affidato ai loop di batteria che, pur rimanendo sullo sfondo, tanto che spesso si limitano a scandire l’andamento del brano, conferiscono la giusta dose di groove. In “Hotu Mato’a” c’è addirittura spazio per qualche passaggio di rullante tanto semplice quanto efficace.

Il riverbero, il delay, e una sconfinata serie di effetti d’ambiente regnano sovrani, grazie ai quali Csarnogurszky costruisce architetture musicali molto ampie e molto aperte. L’estrema pulizia del suono e l’ottimo lavoro di mix&master compiuto da Ádám Kalamár conferiscono alla musica dei Silent Island un carattere per certi versi spazioso: ascoltando loro trame sembra a volte di stare camminando all’interno di un paesaggio.

Tale componente, appunto “paesaggistica”, riesce a circondare l’ascoltatore pur senza essere mai propriamente avvolgente o immersiva, complice l’assenza pressoché totale di distorsioni degne di nota. I Silent Island creano atmosfere intense, in alcuni casi anche sostenute (come nella conclusiva e a tratti cinematografica“Rano Kao”), ma lasciano comunque all’ascoltatore uno spazio definito.

Il titolo dell’EP, così come quelli delle quattro tracce, fa riferimento al nome locale dell’isola di Pasqua, punta estrema sudorientale del triangolo polinesiano e uno dei luoghi più “curiosi” (nel senso antiquato: che stimolano la curiosità) del globo. L’artwork, affidato a Norbert Papp, presenta gli immancabili moai sullo sfondo di un cielo sorprendentemente scuro e minaccioso, che ben si sposa con le tonalità cupe di “Hanga Roa”.

Vorrei concludere condividendo un elemento (per me) divertente: dopo aver apprezzato Rapa Nui, ho esplorato gli altri progetti di Csarnogurszky. Oltre a Black Hill (in realtà il progetto principale: sempre post-rock, ma da solo) e musicformessier (post-rock meets ambient: sempre lui, ma nello spazio), ho scoperto che, ancora una volta insieme a Gábor Károlyi, il nostro si è dato nientemeno che al black metal (lol), con il nome di Realm of Wolves: tanto poco fantasioso il nome, quanto molto interessante la proposta. Al di là delle connessioni stilistiche e musicali, ho considerato quest’ultimo progetto un piccolo, meritato premio per essermi avventurato al di là dei soliti confini.

  1. Orongo
  2. Hotu Mato’a
  3. Hanga Roa
  4. Rano Kao
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